Sulle tracce dell’assassino. Non un uomo qualunque, ma l’artefice di un delitto che spazzerà via per sempre due vite: quella della vittima e la sua. Il killer è un gigante della pittura, nato a Milano il 29 settembre 1571 e morto in circostanze misteriose a Porto Ercole, verosimilmente il 18 luglio 1610. Il corpo non è stato mai ufficialmente ritrovato.
Nello spazio di quei neppure 39 anni Michelangelo Merisi, per tutti Caravaggio, ha segnato in maniera indelebile la storia dell’arte. E in fondo anche la storia della criminologia. Giuseppe Resca, psichiatra e psicoterapeuta di lungo corso, appassionato di pittura, collezionista, ha indossato i panni del moderno detective d’analisi. Ha appeso con le puntine da disegno sulla bacheca i documenti, mettendoli in comunicazione. Da una parte gli atti dell’inchiesta sull’omicidio di Ranuccio Tomassoni, avvenuto a Roma nel 1606; dall’altra le foto di capolavori che hanno per protagonista la lama, il sangue, l’orrore.
Elementi terribili che si ritrovano, sempre e comunque, nelle opere dell’irrequieto paziente disteso sul lettino: i tasselli di una inarrestabile – quanto inconscia – coazione a ripetere. Gli incubi notturni e gli atti di una mente perturbata si materializzano spaventosi e premonitori sulla tela, autentica scena del crimine. Ma da quale profondità arrivano? E in quale abisso portano? Caravaggio profiling (pubblicato da Nicomp Laboratorio Editoriale) è il titolo del libro che ricostruisce scientificamente gli eventi personali tragici e insieme i lampi di un genio assoluto, nel contesto di un’epoca violenta dove tutto poteva accadere.
L’angoscia, il buio del mondo, gli sprazzi di luce: ecco a noi Caravaggio l’attaccabrighe. Lo è stato sempre. Per comprenderne la personalità, l’investigatore parte da lontano frugando nelle radici familiari poco limpide. A fargli da assidua tutrice è Costanza Colonna, marchesa di Caravaggio: perché si occupa del bambino con tanta premura? Si trattava forse un figlio illegittimo? Fatto sta che la sua esistenza sarà senza pace.
Giulio Mancini, uno dei biografi, scrive di quel giovanotto mandato a imparare la pittura – aveva 13 anni – da Simone Peterzano, manierista lombardo: “Studiò in fanciullezza per quattro o cinque anni in Milano, con diligenza ancorché di quando in quando facesse qualche stravaganza causata da quel calore e spirito così grande”. Rimase a bottega fino al 1588, poi se ne andò a Venezia. Secondo l’altro biografo Giovan Pietro Bellori fuggendo “per discordie”, essendo “d’ingegno torbido, e contentioso”. La tempesta interiore lo accompagna anche a Roma, malgrado la svolta positiva nella carriera: è il 1597 quando il cardinale Francesco Maria del Monte lo prende a servizio, incantato dalla sua pittura rivoluzionaria quanto discussa. Trova anche un influente protettore. E’ il marchese Giustiniani, banchiere genovese nel giro della corte pontificia, che in più occasioni lo salva dalle questioni legali in cui si cacciava per via dell’indole aggressiva.

Karel Van Mander, pittore fiammingo, lo descrive così: “Non si consacra di continuo allo studio, ma quando ha lavorato un paio di settimane, se ne va a spasso per un mese o due con lo spadone al fianco e un servo di dietro, e gira da un gioco di palla all’altro, molto incline a duellare e a far baruffe”. Qualche esempio? Durante il soggiorno a Palazzo Madama, dimora del cardinale, il 28 novembre 1600 viene denunciato per aver bastonato un nobile ospite del prelato.
Tra il maggio e l’ottobre del 1604 è arrestato varie volte per possesso d’armi e ingiurie alle guardie: le risse aumentano e assaggia le carceri di Tor di Nona sul lungotevere. Tanto che nel 1605 è costretto a scappare a Genova per tre settimane, dopo aver ferito gravemente il notaio Mariano Pasqualone a causa di Lena, sua amante e modella. Solo l’intervento dei numi tutelari riesce a insabbiare il caso. Eppure poco più tardi viene ricoverato per una ferita, che sostiene d’essersi procurato scivolando sulla propria spada. Già, la spada. I gendarmi ne sequestrano due, illecitamente detenute, nella sua stanza. La spada è il cardine delle fantasie e delle allucinazioni, protagonista assoluta dei dipinti e della scena del crimine, la prova visiva, l’indizio lampante di una personalità distruttiva e autodistruttiva. Ma attenzione: la spada è l’effetto, non certo la causa primaria dei suo demoni.
Caravaggio era di origini umili, dunque non poteva portare spada – era scritto così nella legge, senza l’articolo. La spada costituiva un privilegio degli aristocratici. A lui è vietata: non ne ha licenza. Ma la merita più di chiunque altro, è la sua convinzione. Orgoglioso com’è non gli basta la misericordia – il nome del pugnale che serviva a infliggere il colpo di grazia, dipinto magistralmente ne I bari. Vuole la spada a tutti i costi, per un’ansia di legittimazione insopprimibile.
È il falso bisogno di una identità persecutoria, sottolinea lo psicologo, funzionale a far riemergere antichi fantasmi. Resca individua proprio nella pulsione psicotica a portare spada l’inclinazione fatale a dare e ricevere morte. Per questo Caravaggio trasferisce quell’arma affilata nei suoi quadri, mescolando vicenda biografica e artistica, entrambe incamminate verso un tragico destino. Il destino dell’uomo e del pittore si compie a Campo Marzio, la sera del 28 maggio 1606: una partita di pallacorda, una discussione, vecchi rancori, la ferita mortale inflitta con la spada al poco raccomandabile rivale Ranuccio Tomassoni. Anche stavolta c’è di mezzo una donna, Fillide, modella e cortigiana contesa fra i due. Il verdetto per il delitto è severissimo: condanna alla decapitazione, che poteva esser eseguita da chiunque lo avesse riconosciuto per strada. È da questo momento che nei dipinti cominciano a comparire ossessivamente le teste mozzate, e il suo macabro autoritratto prende spesso il posto del condannato.
Restare a Roma era impossibile: il principe Filippo Colonna lo aiuta a scappare accogliendolo nel feudo sui Colli albani e mettendo in atto una catena di depistaggi. Caravaggio ripara a Napoli e ci rimane un anno. Lì dipinge la Giuditta che decapita Oloferne e la prima versione di Davide con la testa di Golia. Sono incubi, sono arte altissima. Non c’è tregua per la sua mente malata. Nel 1607 salpa per Malta, sempre per intercessione dei Colonna, ed entra in contatto con il gran maestro dell’Ordine dei cavalieri di San Giovanni, Alof de Wignacourt. Gli fa un ritratto con l’obiettivo di diventare cavaliere per ottenere l’immunità: sulla sua testa pende ancora la condanna alla decapitazione.

Nel frattempo dipinge la Decollazione del Battista, il tema è sempre lo stesso. Finché, terminato un anno di noviziato, Caravaggio viene investito nel 1608 della carica di cavaliere di grazia, che finalmente gli permette di portare spada: il suo chiodo fisso. Il titolo però è di rango inferiore rispetto ai nobili cavalieri di giustizia. La rissa con uno di questi gli costa l’arresto e la detenzione nel carcere della Valletta: evade grazie ai Colonna e si rifugia a Siracusa. I maltesi lo espellono con disonore dall’Ordine in quanto <membro fetido e putrido>. Braccato, in pericolo, marchiato dallo stigma, torna a Napoli e crea altri capolavori che testimoniano la sua perenne pulsione distruttiva: la seconda versione del Davide con la testa di Golia, con l’autoritratto nella testa mozzata, e una doppia versione della Salomè con la testa del Battista. Infine l’ultima opera, preludio simbolico e reale all’ultimo viaggio: il Martirio di Sant’Orsola. La santa è morente, trafitta sul seno dalla freccia di Attila. E il barbaro che la sorregge ha le fattezze di Caravaggio, raffigurato con la bocca dischiusa in una espressione agghiacciante di dolore.
Da Roma però arriva la notizia che papa Paolo V sta preparando la revoca della condanna a morte. Caravaggio si mette in viaggio da Napoli – è il luglio 1610 – con una feluca che settimanalmente navigava verso Porto Ercole e ritorno. Il traghetto è diretto segretamente allo scalo portuale di Palo di Ladispoli, sotto il feudo degli Orsini in territorio papale, a 40 chilometri da Roma. Lì avrebbe atteso in sicurezza il condono, prima di rientrare da uomo libero nella città eterna. Ma qualcosa va storto. L’arrivo a Palo, disatteso dalla sorveglianza costiera, ne causa il fermo per accertamenti. La feluca non aspetta: sbarca il pittore e continua la rotta a nord, verso Porto Ercole.
È un film senza lieto fine. A bordo rimane il bagaglio dell’artista: le casse con tre tele che rappresentano il prezzo concordato con il cardinale Scipione Borghese, nipote del Papa, per la sua definitiva libertà. Il bagaglio, letteralmente vitale, va a ogni costo recuperato. Secondo i più, gli Orsini gli avrebbero offerto un’imbarcazione per raggiungere Porto Ercole e recuperare il carico. Caravaggio parte via mare, approdando, ma non è chiaro se il precedente traghetto stesse invece già tornando a Napoli con le fatidiche casse. Stremato dalla febbre alta, probabilmente causata da un’infezione intestinale trascurata, viene curato inutilmente nel sanatorio: muore a 38 anni il 18 luglio 1610. Secondo altri, invece, l’artista raggiunse Porto Ercole via terra attraversando zone paludose: ammalato ed esausto, morì di malaria e fu sepolto nell’anonimato. Una terza ricostruzione suppone che la fine sia stata causata da brucellosi o saturnismo, dovuto al piombo e all’arsenico impiegati nei colori. E c’è ancora un’ennesima ipotesi: Caravaggio fu assassinato da emissari dei Cavalieri di Malta già a Paolo di Ladispoli, agguato architettato con il tacito assenso della Curia romana.
Il profiler Resca nel libro propone un’altra verità, in linea con i quadri e le ossessioni messi a confronto sulla lavagna: Caravaggio si lasciò morire. Si uccise. Per espiare la sua colpa. Per non essere riuscito a riscattarsi. E così sia. Quella morte annunciata, e la morte raccontata nei suoi quadri, è dunque il momento culminante di un’agonia lentissima maturata molto tempo prima. Profetizzata già nel 1596 – dieci anni prima dell’omicidio di Ranuccio – nella testa mozzata di Medusa dipinta sullo scudo dei Medici: il volto allucinato, l’urlo, i serpenti aggrovigliati, il sangue che sgorga a fiotti sono nient’altro che l’autoritratto del pittore. Uno specchio proiettato nel futuro. La visione di quel che inevitabilmente sarà.