Due documentari, due aree geografiche, due storie completamente diverse. Eppure. L’individuo in entrambi soggiace al grande potere della Storia, ne è vittima più o meno consapevole. Presentati entrambi in prima mondiale al Tribeca Festival sono The Gullspang Miracle e Richland.
The Gullspang Miracle è una storia molto particolare. Inizia in Svezia con due sorelle forse settantenni, May e Kari, che chiamano la documentarista Maria Fredriksson per raccontarle una storia speciale, un miracolo, che è successo loro. E’ iniziato dopo un giro al luna park: una delle due si è rotta un osso sacrale ed è rimasta qualche mese con l’altra. Insieme hanno deciso di comprare una casa, cercandola hanno trovato Olaug, sosia perfetta della sorella Astrid scomparsa più di trent’anni prima, nel 1988. La sosia si scopre essere la sorella gemella della morta: nel 1941 quando sono nate la Norvegia era occupata e i nazisti avevano un particolare interesse per i gemelli per i loro esperimenti “scientifici”, per questo le famiglie cui nascevano si affrettavano a darne via uno, separarli perché non venissero portati nei laboratori. Questa la storia “miracolosa” che May e Kari vorrebbero che la documentarista raccontasse. Una storia sufficiente per un documentario, ma non finisce qui. Via via che vanno avanti le riprese emergono nuovi particolari, si definiscono le personalità, nascono dissapori. Olaug stabilisce che non è la genetica a definire le persone ma l’educazione, dal momento che si sente molto diversa, e superiore, al resto della famiglia. Eppure dal momento che ha scoperto di avere avuto una gemella vuole sapere di più sulla sua morte e inizia a indagare… La documentarista segue tutti nei loro dubbi e percorsi psicologici, non vuole arrivare alla soluzione della storia quanto raccontarci le reazioni umane di fronte all’imprevedibile. Doveva essere il racconto di un miracolo nelle intenzioni delle due sorelle è comunque il racconto della fede che abbiamo e vogliamo avere rispetto a certe verità.

Anche in Richland siamo di fronte ad una fede: nel nucleare, nelle promesse del governo americano. La città che dà il nome al documentario è festosa, accogliente, pulita, ordinata. E’ stata costruita negli anni ’40, per ospitare impiegati e scienziati, con le loro famiglie, della vicina centrale di Hanford. Vi si fabbricava il plutonio con cui sono state fatte le bombe, di Nagasaki e Hiroshima. Oggi ci continuano a vivere i figli, i nipoti di quegli impiegati. Non si fanno molte domande. Vanno alla scuola che prende il nome dall’atomica, vivono nelle strade denominate con le sostanze chimiche necessarie a farla. Fanno il bagno nel fiume. Il picnic nei prati.
Diretto da Irene Lusztig che lo ha anche montato e prodotto insieme a Sara Archambault, il doc si apre con una incisiva scena i cui dei volontari cercano di ripiantare cespugli autoctoni in una zona desertificata dalla contaminazione. Le immagini scorrono su divieti di accesso all’area e immaginiamo che il film voglia mostrarci gli effetti della radioattività a distanza di tanti anni, e invece. Il montaggio ci porta in una città festosa, poi di nuovo alle tombe dei neonati morti dopo pochi mesi di vita, e ancora le promesse e i ringraziamenti del presidente Kennedy ai lavoratori di Hanford e poi la figlia di un morto per la radioattività. Ma il filo è continuamente spezzato, non va a fondo, spazia e il risultato è un senso di confusione. In un momento in cui il dialogo sul nucleare è acceso, sarebbe stato utile riuscire a fare un po’ di chiarezza. Dare delle informazioni così necessarie. La staffetta al cinema passa ora all’atteso Oppenheimer di Christopher Nolan, in uscita il 21 luglio. Ma lì entriamo nel territorio della fiction dove tutto è possibile. Richland è una occasione persa.