Chi l’avrebbe immaginato? Chi avrebbe pensato che il lampadario sospeso al soffitto del tinello, comprato chissà quando da papà e simile a un disco volante, avesse una carta d’identità. E che lo stesso valesse per la piccola bilancia pesa farina e maccheroni, sul tavolo in cucina. Che dire poi dello sgabello di legno rosso, accanto al letto nella cameretta da bambino, maltrattato in interminabili partite con le biglie sul pavimento. Insospettabili. Li credevamo anonimi, invece tutti e tre sono nati negli anni ’60 e hanno nomi e cognomi famosi, anzi famosissimi, che appartengono ai loro creatori: rispettivamente il Frisbi di Achille Castiglioni, la Terrailon di Marco Zanuso e Richard Sapper, il Dado di Ettore Sottsass.
E’ l’esistenza avventurosa degli oggetti di design, finiti in mano ad avveduti proprietari o a eredi inconsapevoli. Scrivanie, lampade, poltrone, armadi, macchine da scrivere o da cucire, sedie, posate, spremiagrumi. E ancora vasi, vassoi, cornici, radio, telefoni, manifesti pubblicitari, librerie, televisori che si trovano un po’ ovunque: nelle nostre abitazioni come nei grandi alberghi, in certi particolari negozi e persino sulle navi da crociera. Cose delle case che in qualche modo ci hanno cambiato la vita. O quantomeno l’hanno illuminata di bellezza. Materiali, tecniche, forme (e la forma è sostanza) inseriti in una dinamica virtuosa: studio, profilo estetico, fruibilità, processo produttivo, infine vendita. E il gioco è fatto.

Sarà utile a questo punto un passo indietro. Design, parola di origine anglosassone, è quel che si dice un false friend: non significa disegno (altrimenti sarebbe drawing), quanto piuttosto progetto, dal latino progettare che sta per gettare in avanti. In sostanza: anticipare il futuro. Ed eccoci al nodo. Gli italiani sono maestri riconosciuti del design perché capaci di trasferire in un oggetto creatività, fantasia, intuizione, talento visionario e coraggio dell’utopia. Alcuni nomi li abbiamo fatti. Molti altri vanno aggiunti alla lista, trascurandone colpevolmente altrettanti: Vico Magistretti, Gio Ponti, Gino Sarfatti, Marcello Nizzoli, Franco Albini, Gianni Dova, Afra e Tobia Scarpa, Enzo Mari, gli italiani ad honorem Emilio Ambasz, Bob Noorda e Toyo Ito, Dino Gavina, Giorgetto Giugiaro, Renzo Piano, Ico Parisi, Alberto Meda…
Madamina il catalogo è questo, inesauribile perché va continuamente aggiornato con nuovi stupori. Persone e luoghi compongono una carta geografica sospesa tra la memoria e il domani che è già adesso. Come districarsi dunque fra botteghe, factory, fornaci, imprese, archivi di un artigianato d’autore che diventa arte applicata? Un libro appena uscito per i tipi di Baldini+Castoldi, scritto da due giornalisti appassionati come Antonella Galli e Pierluigi Masini (quest’ultimo è anche insegnante), colma una lacuna evidente: I luoghi del design è una perfetta guida turistica, affidata ai viandanti curiosi di esplorare a colpo sicuro un patrimonio del Made in Italy meno frequentato rispetto alla moda e al cibo. Gli autori hanno scelto 14 itinerari che portano dritti <alla sorgente del progetto>, come recita il sottotitolo del volumetto. Poi se li sono divisi a seconda delle loro predilezioni: nelle pagine non c’è tutto, non poteva esserci, ma sicuramente c’è un po’ di tutto per affrontare il viaggio nella conoscenza di linee, stili, concetti che diventano – attraverso uno sviluppo corale – oggetti d’uso comune quotidiano.
Il diario a quattro mani è una Google Map non virtuale, ma fatta di sottolineature, appunti, indicazioni stradali, orecchie alle pagine scritte. In cerca di mosaici Galli attacca: <Capannone, capannone, rotonda. Bar sulla strada – quelli da cappuccino al volo e auto parcheggiata con le quattro frecce. McDonald’s, concessionario, fabbrichetta, uffici con vetri a specchio, capannone. Siamo in lenta coda, io e il gentile tassista che mi sta accompagnando alla Fondazione Bisazza, ad Alte di Montecchio Maggiore, nella piana vicentina, lastricata di edifici, asfalto, villette, fabbriche, stazioni di servizio>.

Di rimbalzo ecco Masini nell’Emilia dei motori e delle auto da sogno, a raccontare l’epopea di Ferruccio Lamborghini (<Sono uno che fa trattori>) tra la campagna della Bassa e la cittadella logistica dell’Interporto bolognese: <Ho parcheggiato però non scendo. Non ancora. Voglio osservare da fuori questo piazzale d’asfalto, un cuneo tra la facciata di quello che un tempo era lo stabilimento della Ferruccio Lamborghini Oleodinamica – e che oggi ospita il museo – e la strada provinciale 4 Castelmaggiore-Poggio Renatico. E’ giugno inoltrato e siamo a Funo di Argelato, 25 metri sul livello del mare, distesa piatta a nord di Bologna. L’immensa pianura di Guccini, un nowhere tra Ferrara e la luna, come cantava Lucio Dalla…>.
Il libro odora della pelle della poltrona Frau e della plastica Kartell. Ha la forma della ceramica Bitossi e delle arroventate vetrerie di Murano. Ma non si compone solo in provincia: le capitali storiche campeggiano con i loro gioielli. C’è la Milano della Triennale <grande come un transatlantico>, la Fondazione Achille Castiglioni in piazza Castello, gli ottanta metri quadri della Fondazione studio museo Vico Magistretti, il Museo del Compasso d’oro, ovvero l’Oscar del design.

E c’è la Roma del Museo nazionale delle arti del XXI secolo progettato da Zaha Hadid, per tutti il MAXXI: il posto giusto nel posto giusto a poca distanza dal Palasport di Pier Luigi Nervi, il Villaggio Olimpico di Libera e Moretti, lo Stadio Flaminio, l’Auditorium Parco della Musica di Renzo Piano.
E il Sud? A rappresentarlo è l’incanto a strapiombo dell’Hotel Parco dei Principi a Sorrento, trionfo del mondo in blu inventato da Gio Ponti fra mare e cielo. Il design è un buon viaggio.