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Alessandro Borghi: “Amo il mio Paese, ma è ancora razzista e provinciale”

Il protagonista di "Le Otto Montagne" parla del suo cinema, del figlio appena nato e del mondo in cui vorrebbe vivesse

Luciana CaprettibyLuciana Capretti
Alessandro Borghi: “Amo il mio Paese, ma è ancora razzista e provinciale”

Alessandro Borghi / Ansa

Time: 5 mins read

Premio della giuria a Cannes, selezione del Sundance Film Festival, candidato ai David di Donatello: “Le Otto Montagne” è un film speciale. Tratto dal libro omonimo Premio Strega 2017 di Paolo Cognetti, è stato realizzato dalla coppia belga Charlotte Vandermeersch e Felix Van Groeningen in Val d’Aosta.

Racconta la storia di una lunga amicizia nata da ragazzini e ripresa, dopo un lungo intervallo, da adulti. Girarlo è stata una esperienza unica. Parola di uno dei due protagonisti, Alessandro Borghi, 36 anni, 23 film alle spalle, tanta televisione, un David di Donatello nel 2019, candidato adesso per “Le Otto Montagne”, è a New York per presentare il film al pubblico americano.

Cosa ti ha attratto in “Le Otto Montagne”?

È una storia molto particolare. Ho incontrato la mia compagna a Londra 4 anni fa e la prima cosa che mi ha detto è stata: ciao piacere, devi assolutamente leggere questo libro. L’ho letto, volevo i diritti ma erano già stati presi. Passano tre anni e Felix e Charlotte mi chiamano perché vogliono fare il film in Italia. E inizia questa esperienza che è stata forse la più forte della mia vita lavorativa perché ho ritrovato Luca (Marinelli), dopo 7 anni da “Non essere cattivo”, ho conosciuto Paolo Cognetti, Felix e Charlotte, creato con tutti loro una famiglia in montagna in quella casa che non esisteva e che abbiamo costruito, con l’aiuto di gente che lo faceva davvero, ma quando siamo arrivati la casa non c’era e l’abbiamo messa su noi, lavorando tutti i giorni per un mese. Stare lì è diventato qualcosa che non aveva veramente più nulla a che fare con il cinema, sembrava una vita parallela.

Foto di scena da “Le Otto Montagne” con Alessandro Borghi e Luca Marinelli / Ansa

E ti sei ritrovato in quel personaggio o avresti volentieri interpretato l’altro?

Ero molto innamorato di Bruno, mi piaceva questo personaggio ai margini, mi piaceva l’idea di imparare il dialetto, mungere le mucche, fare il formaggio, pascolare, gestire un alpeggio: sono state esperienze interessantissime.

Perché il film parla così profondamente al pubblico?

Ti potrei rispondere in maniera diplomatica e dirti: è una storia universale, ed è vero. Ma, ed è la prima volta che lo dico, se questo film lo avesse fatto un regista italiano non sarebbe successa la stessa cosa. Perché la visione di due persone che devono anche imparare l’italiano per raccontare una storia implica uno sforzo maggiore, poi c’è stata la relazione con noi, con il libro, con il posto, con Paolo e il risultato è che ‘Otto montagne’ non somiglia a nessun film italiano degli ultimi anni.

Cosa ci hanno messo in più?

Già dal formato hanno fatto una scelta precisa: il 4/3 in Italia non si faceva da tantissimo tempo (Il 4:3, in cui l’immagine è più quadrata, è stato usato dalle origini fino al secondo dopoguerra ndr). E poi i registi italiani, e noi attori, mi ci metto anche io in mezzo, siamo un po’ tutti schiavi di questa dinamica dell’industria e quindi nel processo di creazione ci preoccupiamo di piacere. A Felix e Charlotte non gliene frega veramente niente di piacere e forse per questo è uscita fuori questa cosa completamente incontaminata. Quando abbiamo visto i numeri che ha fatto siamo rimasti tutti sorpresi perché un film con due protagonisti che stanno sulla montagna che dura due ore e venti che fa 6 milioni di euro in Italia è un miracolo.

Quali conclusioni ne hai tratto?

Già da tempo ho deciso di fare solo le storie che sento la necessità di raccontare. Ma sarebbe bello se il successo di questo film in qualche modo, potesse essere l’inizio di uno scambio. Perché il problema degli italiani è che sono patriottici, e provinciali. Succedono cose tipo: no quelli non sono italiani e il premio non glielo diamo. Ma scusa ti è piaciuto il film? Sì? E allora il premio glielo devi dare. Oppure: no, dobbiamo essere tutti italiani dal fonico in poi e quelli non li assumiamo. Io non sono patriottico, io tifo per il bel cinema, che sia fatto da un cinese, giapponese, africano non mi importa.

Una foto di scena dal film ‘Delta’ di Michele Vannucci con Alessandro Borghi ANSA/US

E hai iniziato con “Delta” a co-produrre: un modo di fare le storie che ti piacciono?

Sì. Sono fortunato perché ho incontrato Guido Brera (amministratore del gruppo Kairos, che opera nel settore del private banking e dell’asset management, oltreché marito di Caterina Balivo ndr) che condivide la mia passione. Insieme abbiamo fondato Newness, una società di produzione audiovisiva. Abbiamo visto 1800 persone e scelto 7 ragazzi, il più grande ha 26 anni, senza alcuna esperienza, scrivono dei soggetti, ci vediamo, ne parliamo e alla fine di una riunione di tre ore io e Guido ci diciamo: anche se non se lo compra nessuno già abbiamo fatto il nostro lavoro. È una sensazione bellissima.

“Otto montagne e “Delta”, sul conflitto fra bracconieri e pescatori sul delta del Po, sono due film che più dentro la natura non si può, poi sei passato a tutt’altro, a Rocco Siffredi…

E lì è anche natura in un altro senso…. Sai, fra dieci anni magari non avrò più il fisico per buttarmi dentro al Po a meno due gradi o stare sulla montagna, la sfida fisica mi piace e poi voglio andare via dalla città, sento che il posto in cui sono cresciuto e che amo profondamente, Roma, e nel quale sono rimasto perché ci sono persone cui voglio bene, ha in qualche modo contaminato le mie scelte. Spesso mi chiedo come sarebbe andata se fossi nato e cresciuto altrove.

Foto di scena da “Supersex” con Alessandro Borghi / Ansa

Torniamo a Rocco Siffredi…

È stata una roba incredibile, un bel viaggio complesso di cui avevo molta paura.

Lo hai fatto perché avevi paura?

Beh sì, mi succede spesso. Sapevo che c’era un grande rischio di fare una figura di m… e quindi… “Supersex” (serie Netflix con Jasmine Trinca e Adriano Giannini fra gli altri ndr) è la storia dark di un essere umano che è diventato il porno attore più famoso della storia partendo da un paese dell’Abruzzo. Ho avuto la fortuna di avere Rocco a fianco a dirmi tutto, pure quello che non volevo sapere, e abbiamo creato una serie che in parte è estremamente vicina alla realtà e in parte puro intrattenimento. Sto vedendo i primi montati e credo che abbiamo fatto una cosa molto potente, completamente diversa da quello che si aspettano tutti.

Una foto di scena del film: “Sulla mia pelle” di Alessio Cremonini, con Alessandro Borghi
ANSA/ UFFICIO STAMPA Angelo Turetta/Netflix

Il film su Stefano Cucchi, “Sulla mia pelle” è stato molto importante per te oltre ad averti portato un premio David di Donatello…

Sì, volevamo fare un piccolo film per raccontare la storia di un ragazzo che è stato ammazzato, e ne è venuto fuori un fenomeno mondiale, che ha contribuito all’arresto, è incredibile quello che il cinema può fare. Ce ne sono state tante di storie come quella di Stefano e tante ce ne saranno purtroppo, ma se Stefano non fosse stato un tossicodipendente sarebbe ancora vivo. E questo perché a noi non piacciono le persone diverse, non piacciono le persone che hanno bisogno di aiuto, non siamo in grado di metterci nei panni degli altri, siamo molto bravi a giudicare, molto bravi a provare pena, ma non a capire di cosa hanno bisogno gli altri.

 Che è la differenza fra pena ed empatia…

Appunto. Provare empatia rende la vita molto più complicata, devi crearti una rete di protezione per limitare il dolore, evitare che ti travolga, però la soluzione è quella, non c’è altro modo che mettersi nei panni degli altri, che sia un tossicodipendente o uno che viene da un altro paese.

Sei diventato padre…

È nato il 4 aprile, è incredibile, ogni tanto mi fermo un’ora a guardarlo e mi chiedo: che essere umano sarà, come diventerà? Devo capire dove farlo crescere. Perché il nostro è un bel paese, e la nostra è una bella città, ma io ho un grande problema con l’opinione che abbiamo degli altri, mi fa imbestialire perché è razzista e provinciale, e questo discrimine nei confronti degli altri è una cosa che spero mio figlio non senta mai.

 Hai portato il discorso su come è questo nostro paese…

Ha fatto parecchi passi indietro, io non sono mai stato molto attivo in politica, ma la mia posizione è intrinseca al discorso che faccio, perché se dico di aprirsi alle persone di sicuro non posso votare Meloni, però cerco sempre di considerare le persone per gli ideali e i valori che hanno a prescindere dal loro schieramento politico.

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Luciana Capretti

Luciana Capretti

Nata a Tripoli, Libia, ha studiato a Roma, lavorato più di 20 anni a New York come corrispondente per varie testate giornalistiche e per la Rai, e a Roma nella redazione esteri del Tg2. Ha scritto i romanzi Ghibli (Rizzoli) e Tevere (Marsilio), il saggio La Jihad delle donne (Salerno) e il memoir Tredicesima Strada (Galaad).

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