E’ stato un principe della canzone, l’autore di alcuni tra i brani italiani più belli di sempre. Poeta con la faccia da filibustiere, Franco Califano ha scritto per interpreti d’eccezione come Mia Martini, Ornella Vanoni, Patty Pravo, Mina. E ancora Bruno Martino, Peppino di Capri, Renato Zero, Iva Zanicchi, Edoardo Vianello, Toto Cotugno. Ha venduto milioni di dischi. E quando si è messo in proprio ha regalato al pubblico successi memorabili.
Califano è morto dieci anni fa ma in fondo è come se fosse sempre qui. Il ricordo, in questi giorni, è diventato una celebrazione che attraversa in maniera trasversale i programmi televisivi e radiofonici. Sono in tanti a portare una testimonianza, un aneddoto, un piccolo tassello per comporre la sua personalità di artista cristallino e uomo controverso. Musica, donne, carcere: tutta una vita girata al massimo. Il Califfo (oppure il Maestro, a scelta) riposa in una zona appartata del cimitero di Ardea, borgo sul litorale laziale a un’ora di macchina da Roma, accanto al fratello Guido e al nipote Fabrizio. Sulla lapide ha voluto ironicamente una foto e il titolo della canzone portata a Sanremo nel 2005: Non escludo il ritorno.

Biografie appena uscite in libreria, l’intitolazione di una piazza, i discorsi ufficiali. Un progetto musicale in divenire che porta il suo nome e gira attorno a un mucchietto di inediti affidati a Grazia Di Michele, Arturo Zampaglione, Morgan, Franco Simone. E la banda che oggi suona per lui, perché lui è un mito che ancora conquista i giovani.
Che uomo era Franco Califano? “Era bellissimo, camminava con il sole il fronte, il suo sorriso spalancava la giornata”, dice Mita Medici che è stato l’amore della giovinezza e di una vita intera. Lei era la ragazzina di 17 anni (lui ne aveva dodici di più), simbolo del Piper, che l’aveva stregato – e viceversa – e poi lo lasciò per una bugia piccola piccola, facendo piangere quell’adorabile faccia da schiaffi con il cuore sensibile. Sensibile, dolce e gentile. Non troverete una donna che contraddica l’assunto neppure a cercarla con la lente d’ingrandimento: “Ti portava in palmo di mano”, raccontano tutte. La fama di amante latino lo avvolgeva. Quanto agli uomini che gli sono stati amici, parlano soprattutto della generosità verso gli altri con cui ha dissipato la sua ricchezza, morendo povero e aiutato dal sussidio della legge Bacchelli.
Califano era nato il 14 settembre del ’38 a Tripoli, dov’era di stanza il padre Salvatore in servizio nel Regio Esercito. Allo scoppio del conflitto mondiale la famiglia rientrò in Italia: a Nocera Inferiore, la città di mamma Jolanda. Poi, finita la guerra, l’arrivo a Roma nel quartiere Trionfale, ovvero la periferia pasoliniana degli anni ’50 che era l’approdo di tante famiglie – come la sua – arrivate in cerca di fortuna dal Sud. Perso prematuramente il padre, c’era da sbarcare il lunario. Franco, che era stato mandato a studiare in collegio dai preti con scarsi risultati, non aveva parte ma l’arte sì, eccome, anche se era ancora nascosta da qualche parte. Però la sciupava passando il tempo al bar o nella palestra di boxe; fu costretto a studiare ragioneria alle scuole serali: la mattina dormiva. Di nascosto scriveva poesie, ma capì che non gli avrebbero permesso di fare giornata. Chiamato a occuparsi della sorella Lucia e del fratello minore Guido, rimediò un po’ di soldi scrivendo racconti per i giornali femminili e poi, sbarcato a Milano, posando per i fotoromanzi Grand Hotel e Lancio. Il fisico e l’aspetto da mascalzone lo favorivano. E lo maledivano.

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Cominciò così una stagione di eccessi illimitati tra belle canzoni e belle donne, concerti e nightclub, alcol e droga. Arrestato la prima volta nel 1970 per possesso di stupefacenti, viene assolto. Paga però l’amicizia con il malavitoso Francis Turatello, mai rinnegata tanto da far da padrino al battesimo del figlio. Nell’84 due pentiti, gli stessi che avevano falsamente messo in croce Enzo Tortora, lo accusano di rapporti con la camorra e traffico di stupefacenti: i carabinieri lo arrestano nella villa di Primavalle. Un’esperienza che Califano racconterà nell’album Impronte digitali dell’84. “Sono stato cocainomane, spacciatore mai. Eppure sono finito a Regina Coeli, a Rebibbia e a Poggioreale”, ricordò in seguito. “Se lo sai prendere e se non ti incattivisce, il carcere può farti tirare fuori il meglio dal peggio: lì dentro ho trovato gente semplice e molta umanità”.
Il pubblico gli perdona tutto. Malgrado le cadute, gli riconosce le stimmate del grande artista. I suoi brani sbancano il botteghino, ribaltano le classifiche e si affermano come classici intramontabili. Ognuno di noi ha la sua playlist del cuore targata Califano. Qualche titolo? C’è l’imbarazzo della scelta: E la chiamano estate (Bruno Martino), La musica è finita, Una ragione di più (Ornella Vanoni), Minuetto, La nevicata del ’56 (Mia Martini), l’album Amanti di valore (Mina), Un tempo piccolo (Tiromancino), Un grande amore e niente più (Peppino di Capri), Semo gente de borgata (Goich e Vianello), Io so amare così (lasciata in eredità a Patty Pravo). Ma soprattutto la canzone-manifesto uscita nel ’76, quella che rappresenta la sua anima profondamente malinconica oltre la superficie del sorriso abbagliante: Tutto il resto è noia, scritta per sé e interpretata sulla musica di Frank Del Giudice.
Proprio da Del Giudice, autore, compositore, bassista, il sodale che ha accompagnato Califano per centinaia di chilometri e palcoscenici, arriva ora l’ultimo colpo di scena. In trent’anni di collaborazione, al ritorno in macchina da un concerto o durante una nottata passata in studio di registrazione, fra una sigaretta e un bicchiere il Califfo ha lasciato spunti, abbozzi, testi interi di brani mai incisi. Non potevano più restare chiusi in un cassetto: bisognava farli vivere. E allora?
“Del Giudice ha chiamato il produttore Alberto Zeppieri, che a sua volta ha chiamato me. Avevamo già recuperato insieme, grazie a Ernesto Bassignano, un tesoro mai emerso di Umberto Bindi: è stato naturale fare lo stesso con gli inediti di Franco”, spiega Grazia Di Michele. Cantautrice di rara sensibilità, ha pescato nel cesto delle meraviglie sconosciute mettendo da parte tre canzoni. Altrettanto hanno fatto Arturo Zampaglione, Morgan e Franco Simone.
“Ci siamo divisi quel patrimonio stabilendo una regola: ciascuno avrebbe tenuto un brano per sé, affidando gli altri a due artisti a nostra scelta. Il desiderio è quello di dividere questo patrimonio fra tante voci diverse, unite nello stesso progetto: spogliarsi della propria identità per onorare un autore inimitabile.
A che punto è il cantiere?
Io sono stata la più veloce del quartetto: è appena uscita Ti merito un amore, musicata da Del Giudice e cantata da me. Califano aveva scritto il testo ispirandosi a una poesia magnifica di Frida Khalo, ma ci ha messo molto del suo.
E’ stato difficile pescare fra gli inediti?
La scelta è venuta spontanea. Ho sentito subito mie quelle sue parole, così delicate, come se mi fossero state cucite addosso. Credo di aver trovato un giusto arrangiamento.
Che cosa l’ha colpita del testo?
E’ una lettera d’amore che ogni donna vorrebbe sentirsi leggere. Scritta con immediatezza, semplice e diretta, priva di qualunque sovrastruttura ricercata. Va dritta al cuore: il marchio di fabbrica di Califano.
A chi affiderà gli altri due brani?
Uno ad Amedeo Minghi: è perfetto per quell’ordito classico, che ha un andamento orchestrale. Per l’altro non ho ancora deciso.
E i suoi compagni di viaggio?
Franco Simone ha tirato in ballo Mariella Nava. Morgan mette in campo Alberto Fortis e Petra Magoni. La scelta di Zampaglione è caduta sui rapper Gianni Bismark e Franco 126. Ma parteciperanno anche altri big che hanno dato la loro adesione. E in qualche modo verrà coinvolta Mita Medici: credo che Morgan stia preparando qualcosa con lei.
Ci sarà un concertone?
Il prologo sarà una serata a Roma il 6 maggio, una specie di festa collettiva. Salirà sul palco anche Silvia, l’unica figlia di Califano, avuta quando aveva vent’anni: la sua presenza sarà un atto d’amore.
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