C’era una volta l’Italia a Brooklyn. Il filmmaker e fotografo italiano Michele Petruzziello ha realizzato Once upon a time in Brooklyno, un documentario che racconta Bensonhurst, “il quartiere più italiano di tutti negli Stati Uniti”. Classe 1972, Petruzziello dal 2003 vive a New York dove lavora da anni per la Rai. Tra i tanti progetti, quello fotografico Good Bye My Love, per cui nel 2015 riceve il premio Amerigo come miglior fotografo italiano negli Stati Uniti.
Il docufilm, invece, è uscito lo scorso ottobre. Il lungometraggio è un viaggio di un’ora e mezza nel cuore di un lembo di terra a sud di Brooklyn, a metà strada tra Manhattan verso ovest e l’oceano Atlantico ad est; un tempo casa della maggioranza degli immigrati italiani, in prevalenza provenienti dal sud. Proprio in questo quartiere, Michele si era trasferito cinque anni fa, con la moglie Marilena, all’epoca incinta. Ad attrarlo l’idea di respirare l’atmosfera di casa di cui tanto sentiva la mancanza. Mosso da aspettative disattese e dall’incontro con i connazionali arrivati sessanta anni fa, Petruzziello realizza un lavoro importante, che attraverso racconti nostalgici e storie di approdi difficili ma entusiasti, porta fino al complesso presente.

Già vincitore nella sezione documentari al Venus Italian International Film Festival di New York City, l’opera è finalista di diverse rassegne cinematografiche. “Brooklyno vuole essere una dedica speciale ai vecchi connazionali, ai protagonisti che così pronunciano Brooklyn”, ci racconta il regista mentre passeggiamo lungo le strade del quartiere. Entriamo da Villabate Alba, la pasticceria siciliana più famosa della zona; quindi, ci affacciamo alla porta di una manciata di circoli rappresentativi di comuni del sud Italia che si alternano a negozi con scritte in lingua cinese, la maggioranza. Al club di Sciacca, adiacente a quello di Ragusa, ci accoglie cordiale un gruppo sparuto di italiani intenti a giocare a carte. Il tempo di due chiacchiere e un caffè e poi sul marciapiedi opposto un saluto alla proprietaria di Italian Records, un negozio di dischi la cui musica invade la strada. Bisogna ammettere che, complice il clima grigio, si assapora una certa malinconia.
Cosa ha ispirato il documentario?
Essenzialmente sono stato spinto da una sorta di urgenza. Bensonhurst dagli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, dal 1950 circa, ha accolto ben 350 mila italiani, ma quando sono arrivato io quasi nulla rimandava alla sua peculiarità. “È come vivere in Italia,” si soleva dire. Ero convinto che sulle due maggiori arterie del posto, la 18esima Avenue e l’86esima strada, mi avrebbero accolto decine di negozi, bar e ristoranti ispirati al Bel Paese. Un piccolo centro del meridione d’Italia insomma.
Invece..
Come noti, lungo le strade ci si imbatte in insegne che di italiano non hanno nulla. Questo è ciò che mi ha disorientato. Mi sono chiesto più volte se non avessi sbagliato via o incrocio, fino ad una triste riflessione: ho fatto tardi.
In che senso?
Indagando si comprende che Bensonhurst è altro. È evidente che è un quartiere multiculturale. Cosa normale: etnie, lingue e tradizioni diverse sono l’essenza degli Stati Uniti. Eppure, in questo luogo per decenni ha riecheggiato una sola lingua, l’italiano. Ad esempio, l’86sima strada, quella dove è stata girata buona parte del film di John Travolta “La febbre del sabato sera”, ha appena perso l’ultimo baluardo della sua identità italiana, la pizzeria Lenny’s. Lì dove nel film Travolta compra i tranci di pizza. Questa cosa mi ha colpito molto.
Cosa è successo alla Little Italy di Brooklyn dunque?
Come si evince dal film, i figli dei residenti più anziani si sono trasferiti e sono stati sostituiti da nuove ondate di immigrati, in particolar modo provenienti dalla Cina. Prima degli Italiani, a Bensonhurst vivevano quasi esclusivamente ebrei provenienti dalla Russia. Dal 2010 circa la storia si è ripetuta, con i cinesi che in buona parte hanno sostituito gli italiani.
Questi come l’hanno presa?
Alla domanda perché Bensonhurst non è più quello di una volta ho raccolto risposte cariche di frustrazione: “I don’t know (non lo so) come è cambiato, ci sono tutte le razze del mondo, non si capisce più niente”. Un altro pensiero invece sembra mettere tutti d’accordo: “Gli italiani sono andati via per le abitazioni spaziose del New Jersey e di Staten Island, ma anche perché hanno venduto le proprie case a prezzi esorbitanti ai nuovi arrivati”. Di contro, la mia vicina cinese Alice mi ha raccontato che con gli italiani si sente al sicuro, in quanto persone fidate.
Nella pellicola riprendi scene affollate di italiani e di grandi feste nel quartiere, però.
Sì, in particolar modo la festa di Santa Rosalia che con la sua parrocchia è stata importante per gli italiani di Bensonhurst. Per diversi giorni i festeggiamenti sono molto partecipati, così come la parata del Christopher Columbus Day che tocca l’orgoglio ed è un forte richiamo. Dalle scene di archivio dell’ultimo campionato europeo conquistato dall’Italia nel 2021, si capisce inoltre che il calcio, la nostra nazionale in particolare, riporta tutti a casa, lì dove c’è il tricolore.
Cosa ha significato realizzare Once upon a time in Brooklyno?
Insieme al desiderio di documentare mi sono accorto di quanto sia stato importante omaggiare chi da qui con orgoglio ha dato forza all’Italia oltreconfine. Riprendere i volti degli italiani di Bensonhurst, in particolare quelle espressioni cariche di nostalgia per la propria terra, per ciò che si è lasciato dietro, è stato un viaggio emozionante che mi ha spesso turbato. Chiunque abbia scelto di partire, sia che abbia fatto una scelta obbligata oppure desiderata, si è dovuto armare di coraggio, tanto. Per me sono degli eroi, tutti, e spero dal profondo del cuore che ognuno di loro, incluso chi non c’è più, sia riuscito a trovare ciò che cercava.