Il documentario si srotola, pieno di parole. Sono parole di coraggio, resistenza, aiuto, entusiasmo, forza. Come un rotolo giapponese di shodō si apre sulla carta geografica, dall’Europa all’Asia, da Napoli a Morioka. 118 giorni di viaggio, 14.000 km in moto attraverso 13 paesi e 54 città. 58 donne che parlano lingue diverse, ma tutte affrontano lo stesso nemico: la discriminazione, a volte la violenza. E resistono, non cedono. Si chiama “Geografia del coraggio” il documentario di Rosaria Iazzetta presentato all’Istituto di Cultura di New York. E’ il coraggio delle giornaliste di giudiziaria che a Napoli indagano e scrivono di ‘ndrangheta, delle donne di Slovenia, Croazia, Bosnia-Herzegovina e Serbia, che si sono riunite nel parlamento delle donne della ex Jugoslavia per denunciare le violenze e ottenere giustizia, quelle dell’Ungheria, Ucraina, Russia, Kazakhstan, Mongolia, fino alla Cina, Korea del Sud e Giappone. Partita a fine giugno 2018 Rosaria Iazzetta è arrivata a destinazione a fine ottobre, fra strade sterrate, pioggia e fango, ma le donne che ha incontrato l’hanno sempre aiutata, pur non capendosi, parlavano una stessa lingua.

Una idea folle, come le è venuta?
Mi è venuta perchè sono andata molte volte per studio e lavoro in Giappone e ho scoperto che c’è un alto tasso di suicidi fra le donne giapponesi. Esiste una sorta di cultura militare lì, in cui le donne non riescono a esprimersi e per questo si tolgono la vita. Mi sembrava una assurdità che proprio la donna, che dà la vita, si toglie la vita e ho pensato a tutte le donne che nel resto del mondo non si arrendono pur sopportando difficoltà incredibili. E mi sono chiesta: come posso mettere insieme tutte queste persone? Così ho pensato di incontrarle arrivando in Giappone con la moto, per poter chiedere a tutte loro: perché non cedi? Cosa ti dà la forza di andare avanti?
E cosa dà loro la forza?
Molte donne non vogliono darla vinta all’uomo. Esistono con i loro sogni e vogliono realizzarli a dispetto di tutte le difficoltà. Le artiste raccontano: non volevano nemmeno che studiassi arte, non volevano che ci provassi. E invece loro ci provano e spesso si affermano, soprattutto con la scultura, una presenza fisica, che dice metaforicamente: mi dovete vedere, voi non mi volete e invece mi dovete vedere. Le attiviste hanno una gran voglia di aiutare le altre, probabilmente hanno subito sulla loro pelle delle violenze, e reagiscono creando delle comunità. Le prime tre donne che ho intervistato erano italiane, giornaliste di cronaca giudiziaria, una la Capacchione l’ho intervistata con i poliziotti che la proteggevano, vive ancora sotto scorta, le altre due sono state minacciate, ad una hanno incendiato l’auto, all’altra gliel’hanno presa a martellate, ma loro continuano. Perché non possono vivere senza cercare la verità e scrivere la verità e per farlo tutte hanno rinunciato ad avere una famiglia. In Cina le donne dicono che sono felici che quello è un paese dove tutto è possibile sono completamente integrate al sistema ma le ho inserite per dimostrare come cambia il pensiero dall’Europa all’Asia.

Rosaria Iazzetta parla con un piacevole accento partenopeo e ride con occhi che brillano dietro curiosi occhialetti tondi piccoli, dall’anima antica. È effervescente, entusiasta. “Sono docente di scultura all’Accademia di Belle Arti di Napoli – dice – prima di me non c’è mai stata una donna, come è possibile? in una delle sedi storiche in italia, è sconcertante.” si fa da sola le domande e da sola ancora si stupisce di risposte che conosce. E’ stata la prima artista a vincere la borsa di studio per il Giappone, bandita dal ministero degli Affari esteri italiano, e prima italiana a conseguire il master in Arti visive alla Tokyo University of the Arts. A Tokyo, nel 2002, ha iniziato la sua attività di formatrice presso l’Istituto Italiano di Cultura di Chiyoda. Poi ha esposto le sue opere nel mondo.
Lei è una scultrice, perché un documentario?
Ho pensato che per una volta non dovevo fare una scultura da sola, chiudermi per 4 mesi nel mio studio, ma dovevo mettere insieme le esperienze di queste donne, fare una scultura sociale. E l’ho fatto.
Una scultura sociale per dire metaforicamente: “ci dovete vedere, non ci volete e invece ci dovete vedere”