È vero: i comunicati ufficiali, i discorsi di piazza, i telegrammi, i giornali di carta (insomma, le testimonianze scritte) aiutano senz’altro a comprendere il periodo storico in cui sono stati realizzati. Ma, talvolta, dalle immagini possiamo trarre conclusioni ancor più profonde. Perché la percezione sensoriale e soprattutto la percezione visiva permangono nel tempo a distanza di anni. Lo stesso vale per le tecniche di assuefazione. Anche se il Duce è stato convocato al Quirinale da Vittorio Emanuele III per formare un governo quasi un secolo fa (ottobre del ’22). Anche se Mussolini non si affaccia più su Piazza Venezia aizzando la folla festante contro i presunti nemici d’Italia. Anche se il Muro di Berlino è caduto nell’89 e il comunismo non esiste più. Le modalità cambiano, certo. Gli slogan si adattano alle circostanze. Ma il modo in cui i leader di qualunque estrazione — destra o sinistra che sia, totalitaria e non — si approcciano alla propaganda è rimasto pressoché invariato: l’arte del consenso applicata all’ideologia resta una tentazione irresistibile.
È ciò che possiamo constatare ammirando i manifesti e gli altri materiali grafici e documentari esposti a un passo da Bologna nella mostra “Propaganda. The Art of Political Indoctrination”, allestita dalla Fondazione Massimo e Sonia Cirulli nella straordinaria factory di Dino Gavina al numero 275 della Via Emilia, territorio di San Lazzaro di Savena. Già presentata nella Casa Italiana Zerilli Marimò della New York University a marzo 2020 — sulla Grande Mela il regime fascista spese molte energie, cercando di rafforzare il legame dei migranti italiani con la Madre Patria, ma questa è un’altra storia — l’esposizione riflette magicamente il nostro passato prossimo. E anche il nostro presente.
Nell’epoca delle fotine patinate e degli egocentrismi da influencer, descritti con dovizia di particolari in un bel libro di Massimo Del Papa, l’ambientazione spoglia e l’arredamento essenziale del vecchio stabilimento di grandi idee artigianali – quelle che hanno tracciato le linee del Made in Italy – enfatizzano ancor di più la bellezza di queste opere, suddivise con efficace progressione temporale in cinque sezioni tematiche.
I manifesti risalgono a varie epoche, attraversate dal nostro Paese durante quello che lo storico britannico Eric Hobsbawn definì, non senza qualche ragione, “secolo breve”. Breve, ma intenso. E drammatico. Eccone qualche esempio. L’annessione coloniale dell’Etiopia e della Somalia, celebrata dall’architetto e designer Erberto Carboni nel manifesto “Viva il Duce”, è ispirato a due iconografie apparentemente agli antipodi: la tensione — anche violenta — verso la modernità da un lato, il recupero della tradizione classica dall’altro (come si legge nelle illustrazioni, la M di Mussolini ricorda uno stendardo romano).
E poi la Crociera aerea del Decennale 1933-XI anno dell’era fascista, organizzata da Italo Balbo in occasione del Century of Progress di Chicago, a cui il pittore e illustratore triestino Marcello Dudovich ha dedicato uno dei suoi più intensi manifesti (anch’esso esposto nella mostra). E ancora due simboli di forza, eleganza e autarchia fuse assieme: la Fiat Balilla, orgoglio del genio meccanico tricolore, e il transatlantico Rex, campione del mondo di velocità.
E infine la ricostruzione post-bellica, quando gli italiani si rimboccarono le maniche per rimettere in piedi un Paese dilaniato da lutti e bombardamenti. Pur essendo stato impacchettato e spedito verso l’Italia con gli aiuti del Piano Marshall, senza i quali avremmo vissuto per tutta la Guerra Fredda, e forse anche dopo, sotto l’influenza sovietica, non siamo sicuri che il sogno americano sia arrivato al mittente. L’assimilazione è stata lenta e faticosa. Forse mai del tutto riuscita. Altrimenti non si spiegherebbe l’ostilità — ancora molto sentita nel nostro Paese — verso gli Stati Uniti, di cui notiamo gli effetti soprattutto in questa fase storica.
Su tutto e su tutti campeggia l’immagine dell’uomo forte tra conquiste coloniali, edilizia popolare, bonifiche, battaglie del grano, educazione fisica, culle piene e treni che arrivano sempre in orario. Reso onnipresente dalla macchina propagandistica, il Duce diventa così scenografia, fotomontaggio avanguardista, incisione sulle pareti degli edifici pubblici, scritte sui muri delle città, icona di massa, statua e scultura — il Profilo continuo realizzato da Renato Bertelli in legno o metallo, in formati diversi, ne è esempio lampante. Ma i meccanismi dell’Italia repubblicana, posteriori al referendum, non sarebbero stati molto diversi.
Basta vedere come i manifesti elettorali esprimono la polarizzazione fra Democrazia Cristiana e Partito Comunista (“O di qua o di là”, verrebbe da dire), perfettamente simboleggiata da un bellissimo cartellone realizzato dal comitato civico di Spoleto nel 1950: “I comunisti votano così”, con un piede rosso Mosca che traccia faticosamente una croce sul simbolo del Pci.
A ciò si aggiungono gli appelli contro l’astensionismo, a dimostrazione che i delusi dalla politica, in Italia, ci sono sempre stati: “Chi non vota è un ritirato”, “Con qualunque mezzo vai a votare”. Un viaggio dantesco nella storia, la nostra storia: dalla selva oscura del ’22 fino ai tempi, non idilliaci quanto il Paradiso di Beatrice ma pur sempre migliori, del secondo Dopoguerra. Come scrisse Indro Montanelli nella sua Storia d’Italia, “un Paese che ignora il proprio ieri, di cui non sa assolutamente nulla e non si cura di sapere nulla, non può avere un domani”. Lezione da tenere bene a mente nei tempi tempestosi di oggi.