È ancora molto difficile prevedere quali saranno le traiettorie che l’industria cinematografica seguirà nei prossimi mesi e anni, dopo essere stata travolta dal ciclone della pandemia. La trasformazione in atto pare così radicale e profonda da impedire previsioni attendibili e chiare. Il ricchissimo programma della Mostra del cinema di Venezia, edizione numero 78, raccoglie con eccezionale abbondanza il meglio dei titoli fermi da mesi, ma non va scambiato per un segnale di rinascita o di ripartenza: se e come il cinema si ridarà forme e prassi distributive rinnovate lo capiremo quando sarà un po’ più chiaro in che misura e in quali contesti il rapporto tra spettatori e sala continuerà a vivere e che tipo di compatibilità il grande schermo potrà trovare con le piattaforme, con la sovrabbondanza di contenuti on demand e con le nuove abitudini di fruizione.
Forse la sontuosa selezione veneziana potrà dare in merito qualche indicazione e suggerire comuni denominatori; quel che è certo è che il direttore Alberto Barbera e il suo team di selezionatori, dopo l’interlocutoria edizione dello scorso anno, sono stati abili ad accaparrarsi tutto quello che era possibile includere, preparando un evento importante, segnato da quell’eccezionalità di cui, in questi due anni, abbiamo sentito la mancanza.
Diamo uno sguardo alla selezione, partendo dal concorso e dalla nutrita schiera di film italiani presenti, ben cinque, molto diversi tra loro e tutti per differenti motivi molto attesi.
Il primo a essere presentato sarà È stata la mano di Dio, ritorno di Paolo Sorrentino a Venezia vent’anni esatti dopo L’uomo in più, film d’esordio del regista napoletano presentato in una sezione collaterale allora chiamata Cinema del presente. Prodotto da Netflix, questo nuovo film si presenta come un’opera fortemente autobiografica e personale, nella quale – pare – che Sorrentino racconterà il tragico episodio della scomparsa dei suoi genitori in seguito a un incidente domestico nella loro casa in montagna.
Protagonista di È stata la mano di Dio è il sorrentiniano doc Toni Servillo, che interpreta anche Eduardo Scarpetta in Qui rido io di Mario Martone, secondo italiano in concorso, opera che ricostruisce la controversa figura del grande attore napoletano, padre dei De Filippo, colto in un momento difficile della sua carriera.
Il buco, terzo lungometraggio di Michelangelo Frammartino, è il film più underground del quintetto di casa, anche letteralmente, dato che ci condurrà sottoterra in un grotta calabrese, l’Abisso del Bifurto, profondissima caverna che scende in verticale per 683 metri tra i monti del Pollino. Il regista milanese ha sempre realizzato opere suggestive, intrise di spiritualità e capaci di cogliere simboli e connessioni inattese, e qui sembra voler giocare sulle analogie tra speleologia, cinema e psicoanalisi, tutti e tre nati nel 1895 e tutti e tre strumenti in grado di indagare profondità nascoste.
Chiudono la compagine italiana due attesissime opere di autori emergenti: America Latina è il terzo lungometraggio dei gemelli D’Innocenzo, che arrivando subito dopo lo spiazzante (ma a mio parere bellissimo) Favolacce, si carica di aspettative enormi. Se ne conosce poco, se non che Elio Germano sarà il protagonista e che dovrebbe essere un thriller.
Si sa molto di più di Freaks Out di Gabriele Mainetti, il cui esordio Lo chiamavano Jeeg Robot ha sbancato il botteghino qualche stagione fa, mentre questa opera seconda, pronta da più di un anno e bloccata dalla pandemia, va indietro nella Roma occupata dai nazisti, seguendo le vicissitudini di quattro fenomeni da baraccone di un circo di freaks, che tentano di sopravvivere alla guerra civile.
Al di là degli italiani, tanti nomi di grande peso, che hanno fatto la storia del cinema e della Mostra: ad aprire la manifestazione sarà il ritorno di Pedro Almodovar con Madres Parallelas, seguito nei giorni immediatamente successivi da Jane Campion, con il western neozelandese The Power of the Dog, e dal maestro Paul Schrader con il thriller The Card Counter.
Grandi aspettative anche per registi più giovani ma già abituali frequentatori di festival internazionali, come Pablo Larrain, che presenta l’attesissimo Spencer, biopic su Lady D, o Michel Franco, che con Sundown, a un anno di distanza dal problematico e durissimo Nuevo Orden, torna a darci uno spaccato violento delle contraddizioni del suo Messico.
Completano il lotto dei 20 film che si contenderanno il leone d’oro Mona Lisa and the Blood Moon della talentuosa Ana Lily Amirpour, Un autre monde di Stéphane Brizé, L’événement di Audrey Diwan, Competencia oficial di Gastón Duprat e Mariano Cohn, Illusions Perdues di Xavier Giannoli, The Lost Daughter, esordio alla regia di Maggie Gyllenhaal, On the Job: The Missin Eight del maestro dell’action filippino Erik Matti, Żeby nie było śladów (Leave no Traces) di Jan P. Matuszyński, Kapitan Volkonogov bezhal (Captain Volkonogov Escaped) di Natasha Merkulova, Aleksey Chupov, Vidblysk (Reflecton) di Valentyn Vasyanovych, che aveva vinto Orizzonti due anni fa con il bellissimo Atalntda, e La Caja di Lorenzo Vigas, regista venezuelano che aveva vinto il massimo riconoscimento proprio al Lido, un po’ a sorpresa, con Ti guardo (Desde allá), nel 2015.
Fuori concorso, tre titoli sembrano catalizzare l’attenzione, tutti americani: in primis, Dune, del regista canadese Denis Villeneuve, adattamento dell’ostico capolavoro di Herbert che ha già spinto al flop Lynch e che Jodorowski non è riuscito a portare sul grande schermo. Anche in questo caso, si tratta di un film pronto da più di un anno, che per l’espressa volontà del regista di andare in sala e non direttamente in piattaforma, si sblocca solo ora. Il cast all stars (Timothée Chalamet, Rebecca Ferguson, Oscar Isaac, Josh Brolin, Stellan Skarsgård, Zendaya, Charlotte Rampling, Jason Momoa, Javier Bardem…) e la maestria visiva i Villeneuve danno a Dune la dimensione del grande spettacolo, vedremo se sarà all’altezza di un compito così difficile come quello di adattare un romanzo complesso e statico come quello di Frank Herbert.
Altrettanto atteso è il simil horror di Edgar Wright Last night in Soho, con la “regina degli scacchi” Anya Taylor-Joy e la bravissima protagonista di Jojo Rabbit Thomasin Harcourt McKenzie, alle prese in questo caso con salti temporali tra la Londra di oggi e quella degli anni ’60 e fantasmi del passato non esattamente amichevoli.
Il trittico dei big made in USA fuori concorso è chiuso da The Last Duel di Ridley Scott, che nonostante i recenti flop, quando racconta di gente che duella, merita tutta l’attenzione del mondo. Qui, a fronteggiarsi nella Francia del XIV secolo sono Matt Damon e Adam Driver, nei panni di due cavalieri che si sfidano nell’ultimo duello legalmente autorizzato nella Francia medievale. Nel cast anche Ben Affleck, autore insieme a Damon della sceneggiatura, e Jodie Comer.
Spazio poi alle altre sezioni, da cui, come sempre, attendiamo sorprese, soprattutto da Orizzonti, che ospita diciannove lungometraggi in gara. Unica italiana è Laura Bispuri, già a Berlino nel concorso principale con Vergine Giurata, qui presenta la sua opera seconda Il paradiso del pavone, studio familiare al femminile con Dominique Sanda, Alba Rohrwacher, Maya Sansa. Personaggi femminili sulla carta molto interessanti sono anche quelli che caratterizzano anche Les Promesses di Thomas Kruithof, con Isabelle Huppert, e À Plein Temps di Eric Gravel, con una straordinaria Laure Calamy. Attesa anche per Rhino, film ucraino che il direttore Barbera ha definito di una violenza brutale ma con momenti di grande cinema.
Insomma, ce n’è per tutti e sarà difficile non perdersi in tanta abbondanza, considerando che anche La settimana della critica e Le giornate degli autori promettono titoli molto interessanti.
Noi saremo al Lido per voi da mercoledì per raccontarvi la Mostra, per darvi la nostra opinione sui film, ma anche per farvi respirare un po’ dell’aria glamour del Lido di Venezia, che saprà resistere alle giustamente rigide regole anti-Covid che ne segneranno e ne permetteranno, anche quest’anno, il regolare svolgimento.