Possiamo ben dire che è stata la forza del destino a sferrare un colpo maledetto al Metropolitan Opera House. O meglio, è stato il corona virus a far precipitare il più grande teatro lirico al mondo nella più profonda crisi dei suoi 137 anni di storia. È forza del destino che il Met (da non confondere con il museo Met) ha dovuto annullare l’intera stagione lirica 2020-2021. La riapertura, se non ci saranno soprese, sarà fra un anno. A settembre, si spera, prenderà il via la stagione 2021-2022, dopo avere saltato a pie’ pari l’intero calendario precedente.
In un primo momento si potrebbe avere la sensazione che io stia mettendo la lente d’ingrandimento su un problema “da ricchi”, qualcosa che riguarda solamente l’elite culturale newyorkese. Niente più che un inconveniente di cui gli amanti dell’opera dovranno farsene una ragione. Tutto sommato, ci sono problemi ben più gravi che non venire privati per esempio di una produzione della Carmen. Con la regia di Richard Eyre avrebbe dovuto andare in scena il 21 settembre.
Non mi sto preoccupando del deserto culturale a cui molti benestanti newyorkesi saranno sottoposti fino al prossimo settembre. Mi preoccupa invece l’impatto economico che rientra in una crisi complessiva in cui New York è precipitata.
Il Metropolitan Opera House, chiuso da metà marzo quando era stato imposto il lockdown, è di gran lunga il più capiente teatro di New York. È un tempio della lirica come non ce ne sono molti altri. La Scala di Milano e il San Carlo di Napoli sono gioielli conosciuti in tutto il mondo ma dove altro si trova un teatro lirico con la capienza di 3800 posti? La Scala in confronto ne ha duemila e il San Carlo non arriva a mille e cinquecento.
Il Metropolitan genera ogni anno introiti di circa 150 milioni di dollari. È un grosso giro d’affari che, prosciugato per un anno e mezzo, avrà un impatto molto grave sul personale del Met. Sono circa mille persone impiegate a tempo pieno dal teatro lirico e già dallo scorso aprile sono tutte senza stipendio.
Inizialmente la speranza era che il Met avrebbe riaperto con una performance per la notte di Capodanno. Avrebbe dovuto essere un gran gala che era stato annunciato durante l’estate da Peter Gelb. Il direttore generale del Met, come molti altri nel mondo delle arti e della cultura newyorkesi, aveva sperato che in assenza di un secondo contagio si sarebbe potuto riprendere più o meno la vita pre-Covid.
La situazione sembrava promettente. Dopo gli spaventosi picchi in aprile e maggio, i contagi a New York avevano incominciato a diminuire fino ad alcune settimane fa quando la curva aveva ripreso a salire. Questa settimana si è arrivati al 3,25% di positivi al Covid tanto che pure la riapertura delle scuole per un momento era stata messa in forse dopo che il sindaco aveva dichiarato che se la percentuale di contagi avesse superato il 3% non ci sarebbero state lezioni di persona. Se le scuole rischiano di richiudere da un momento all’altro, figuriamoci la lirica!
Il problema è ben più ampio. Chi è stato a New York sa bene che il grandissimo edificio del Metropolitan Opera House — in stile contemporaneo con la facciata abbellita da cinque arcate — è parte del complesso dei teatri di Lincoln Center. Lirica, balletto, musica classica, prosa: ogni sera la zona di Lincoln Center si anima con circa 5 milioni di spettatori all’anno. Non quest’anno. Tutti i teatri di questo complesso, non solo il Met, sono chiusi a tempo indeterminato.
Il danno economico è devastante. Per non parlare poi delle economie secondarie messe in moto dagli eventi culturali di Lincoln Center. Ristoranti, bar, alberghi. Perfino i taxi ne risentono. Solitamente verso le 19 e trenta c’è un taxi via l’altro che si ferma davanti alla gradinata che porta verso gli ingressi ai teatri. Ora neppure un singolo taxi ha ragione di fermarsi li, né alle 19 e trenta, né in qualsiasi altro momento del giorno o della notte.
Con il Metropolitan al buio il direttore generale Gelb si è rimboccato le maniche. Anziché stare a piangere sulla stagione annullata si è messo d’impegno a fare progetti e lanciare nuove idee nel tentativo di rilanciare un’istituzione culturale che comunque ha costantemente bisogno di darsi una rinfrescata. Quando nel settembre 2021 il teatro riaprirà, il debutto non sarà un’opera classica tipo Turandot o Falstaff. No, dopo diciassette mesi di chiusura, il sipario di velluto rosso si alzerà su “Fire Shut Up in My Bones”. Si tratta di un’ opera ispirata dal recente memoir di Charles Blow, un editorialista afro-americano del New York Times. Il compositore è Terence Blanchard, anche lui afro-americano, e sarà la prima volta in 137 anni di storia che in questo tempio della lirica andrà in scena un’opera composta da un nero. È un primo incoraggiante segnale che le maestose porte del Met intendono essere aperte anche ai neri. Non che fino a questo momento siano state chiuse per razzismo. Ma semmai si tratta di un razzismo culturale. Quando le produzioni sono esclusivamente parte della tradizione bianca i neri si sentono esclusi. E per sopravvivere il Met ha bisogno non solo di debellare il Covid ma anche di diversificare il pubblico.