Buio, luci, e fuga. A questo siamo abituati dopo la fine di un film al cinema. Di solito, quando una pellicola finisce, il proiettore si spegne, i popcorn si buttano, e si scappa verso casa, verso un bar, o verso un ristorante. Questa routine diventa impossibile, e anche un po’ maleducata, quando, appena si accendono le luci, invece del solito andirivieni, sotto lo schermo appaiono attori, direttori e produttori in carne ed ossa. Dal 28 settembre al 14 ottobre, sarà proprio così che si vivrà la fine di ogni progetto cinematografico presentato nei tanti teatri della Film Society of Lincoln Center. La prestigiosa organizzazione di cinefili newyorkesi, che trova casa nel lusso del Lincoln Center, organizza in fatti, per le due settimane avvenire, il New York Film Festival (NYFF), uno tra festival i più prestigiosi e longevi della storia Americana.
Arrivando da Columbus Circle, all’angolo sud-ovest di Central Park, il primo quadretto visivo della realtà del NYFF si colora dell’arancio resina emanato dalle elegantissime geometrie del Lincoln Center for Performing Arts. Qui, una flotta di cinema e teatri s’incastrano tra il lusso e la modernità, all’interno di uno spazio dove figurano elegantissime anche la Metropolitan Opera e la New York Philarmonic. Assieme ad un intelligente esercito di bar e ristoranti, questi creano un raffinato, quasi futuristico macigno architettonico dedicato all’eccellenza dell’intrattenimento intellettuale. Lungo la West 65th, in fatti, quello che da lontano sembra un’armata di lucciole si rivela solo un impressionante gioco di luci che invita i patroni ad entrare in ognuno dei tanti teatri allestiti per l’occasione, o a perdersi in un contemplativo bicchiere di vino lungo l’adiacente passerella.
Cogliendo i suggerimenti delle lucciole, e tirando verso gli interni delle varie sale cinematografiche, si arriva alla vera forza creatrice del New York Film Festival, il cinema. A differenza di molti altri festival, come il prossimo Tribeca Film Festival, le idee cinematografiche proposte all’interno del Lincoln Center non competono l’una con l’altra. Il NYFF, invece, si concentra su una Main Slate di trenta film “from around the world”. Qui, artisti selezionati da più di 15 nazioni diverse propongono in anteprima la loro arte cinematografica sul palcoscenico principale del festival. Da “The Ballad of Buster Scruggs” dei fratelli Cohen, a “The Image Book” di Jean-Luc Godard, a “Happy as Lazzaro” dell’italiana Alice Rohrwacher, le pellicole dei giganti internazionali dell’industria assaggiano per la prima volta i meccanismi dei proiettori. Dopo essere state deglutite e digerite dal loro primo pubblico, queste opere trovano ulteriore spazio nelle culle concettuali dei loro creatori, i quali hanno l’opportunità, insieme a cast e produttori, di portare alla luce il proprio processo artistico. Esporre un’opera al New York Film Festival, diventa quindi una celebrazione della sua evoluzione creativa. Visto che le pellicole non competono per alcun premio, proporre la propria idea di cinema qui rappresenta una maniera per incitarne la discussione, per portare alla luce una qualche conversazione reputata troppo taciturna.
Sembra essere proprio questo l’onorevole tema centrale del festival – la conversazione. In fatti, la selezione delle opere non si limita ai trenta celebri titoli presenti nella Main Slate. Bensì, sono soggetti allo stesso trattamento una catena di eccelsi progetti di cinema sperimentale. Tra questi, il Festival del 2018 punta i riflettori sul medium del documentario, accogliendo sotto il suo ombrello concettuale progetti come “What You Gonna Do When the World’s on Fire”. L’opera sperimentale ed esperienziale dell’italiano Roberto Minervini dipinge, ad esempio, un ritratto scomposto dell’identità culturale della comunità afroamericana di New Orleans, ritagliando piccoli quadrati delle scene veritiere e quotidiane che circondano il loro tragitto verso la giustizia sociale. Assieme a una decina di altri titoli, come “Watergate” di Charles Ferguson, questi compongono una cornice di progetti al di fuori della Main Slate che inevitabilmente dirigono il proprio pubblico verso una discussione di svariate sfaccettature socio-culturali per un verso, e della forma strutturale del cinema per un altro. Da una parte si discutono insomma i contenuti tematici esposti dal progetto, mentre dall’altra si prova a decifrarne ed analizzarne la forma.
L’ambivalenza di questa discussione svela la vera natura dell’occasione. I titoli della Main Slate e quelli al di fuori della lista agevolano alla stessa maniera quest’esposizione delle nuove frontiere della forma cinematografica. Nel sperimentare con queste nuove forme, ogni progetto cerca di portare i propri contenuti agli occhi del mondo, incitandone la discussione. Sembra essere proprio per questo motivo che ad ogni pellicola viene associato, immediatamente a seguire, il comitato dei suoi interpreti. Dopotutto chi, oltre a gli interpreti, può portare ogni piccola idiosincrasia del film all’interno del giusto contesto tematico e strutturale? Di solito è il pubblico, ed il pubblico solo a dover ricomporre l’insieme concettuale dai tanti pezzi. Avendo l’input a posteriori degli interpreti, però, si riescono a contrastare le proprie impressioni e conclusioni con quelle di chi le ha portate alla luce. Ciò che nasce da questo contatto tra pubblico e creatore è proprio la conversazione. In qualsiasi maniera nasca, che sia tra gli interpreti o che sia tra il pubblico, o che siano l’uno con l’altro, si finisce con il parlare. Si parla dei temi, dei concetti, delle idee, e si parla della struttura, della cinematografia, della qualità della forma. Si parla di come una possa uscire dall’altra, e viceversa. Non importa di quale sfaccettatura del progetto si tratti, l’importante è parlarne: esporsi a concetti nuovi e capirli discutendoli.
Anche per questo motivo, non ci sono Guest List al NYFF. Nonostante alcune premiere come quella per il film dei fratelli Cohen incitino file chilometriche in biglietteria, ogni presentazione è aperta al pubblico generale. Tutti sono i benvenuti, basta fare la fila e comprare il biglietto. Quest’accoglienza, che stona fortemente con la selettività di altri festival (come quello di Tribeca), riflette cristallina la propensità del festival verso l’analisi, la riflessione e la propagazione. I nuovi concetti esposti trovano una maggiore diversità di punti di vista con cui scontrarsi, arricchendone immensamente la tappezzeria socio-culturale. Anche la grazia moderna del Lincoln Center, che a primo tatto sembra poter tagliare fuori una porzione del pubblico, offre comunque una corona costellata da ogni tipo di bar e ristorante – un’infinità di opzioni per continuare a parlare, per non lasciare che l’esperienza appena trascorsa svanisca immediatamente nella confusione della città che non dorme mai.
Questa piccola culla di dibattito, costernata da lucciole elettroniche ed eleganti geometrie, va quindi in fine a creare un’esperienza che trascende il cinema, stimolando invece più a fondo il tessuto intellettuale del suo pubblico. Con lei, il cinema si avvicina molto più alla cultura. I pop-corn (che comunque ci sono) diventano temi complessi da masticare, il Lincoln Center si evolve in una sottospecie di agorà e la fuga verso l’uscita si trasforma in un prolungato dibattito che rimane addosso fino a ben oltre i confini di Central Park e Columbus Circle.