Il DOC NYC, il più grande festival di film documentari degli Stati Uniti, conclusosi giovedì 17 novembre, ha proposto una ricca selezione di opere provenienti da tutto il mondo. Ho scelto, per la mia domenica sera, David Lynch: The Art Life di Rick Barnes, Jon Nguyen e Olivia Neergaard-Holm, che era passato con successo all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, lo scorso settembre. Scelta non poteva essere più felice.
Quando ti nominano Lynch pensi immediatamente al cinema. The Elephant Man, Mulholland Drive, Blu Velvet — quel meraviglioso senso di angoscia che ti lasciano addosso. Uno non pensa a tele e pennelli. Eppure David Lynch nasce artista. Ci nasce, non ci diventa — come capita a certi registi che si dilettano, di tanto in tanto, a buttar giù qualche schizzo. Lynch è un artista figurativo che approda, a un certo punto della sua ricerca, al cinema.
Il documentario di Barnes, Nguyen e Neergaard-Holm, suoi fidatissimi collaboratori, racconta il percorso dell’uomo e dell’artista, la sua infanzia in Montana, la permanenza nell’odiata Philadelphia — “città maligna che puzzava di paura e razzismo” — e il suo arrivo a Hollywood, quando realizzò Eraserhead, l’opera titanica che gli costò quattro anni di lavoro — e un matrimonio.
Il documentario è molte cose. È un testamento d’amore a Lou, la figlia di quattro anni, un’eredità affettiva della propria poetica che la bambina potrà consultare quando il padre, oggi settantenne, non sarà più qui. È uno strumento utilissimo per risalire all’origine di molte ossessioni che lo perseguitano e che abbiamo imparato ad amare-odiare nei suoi film: la fascinazione per il morboso, per quella parte oscura del nostro mondo interiore che ci chiama, che temiamo ma che al contempo desideriamo esplorare. Ed infine è un dono per tutti i cinefili: a guidarci all’interno del suo universo disturbante è proprio lui, Lynch, il quale, oltre a fornire filmati privati inediti e a lasciarsi riprendere mentre lavora nello studio di casa, presta la propria voce per commentare le immagini.
Piace molto il modo in cui il regista si mette a nudo, senza censurare difetti, errori, manchevolezze. Scopriamo che la mancata approvazione del padre verso il lavoro del figlio — addirittura il timore che fosse disturbato — e la continua esortazione a trovarsi “un lavoro vero”, arrecarono a David un profondo dolore, che trovò sfogo nel suo immaginario, e nelle sue tele. Uno sfogo mai scontato o banale. L’arte di Lynch non è un semplice specchio di una sensazione, quanto piuttosto il frutto sbocciato da un angolo del proprio inconscio personale, che rimanda all’inconscio di tutti. Ed è proprio questa sua straordinaria capacità di lavorare con la tenebra sua e nostra che ci conquista, terrorizzandoci.
A parte i fatti cronologici che hanno caratterizzato e cambiato la sua vita — una su tutte, la borsa di studio assegnatagli dall’American Film Institute che gli permise di andare a Los Angeles e vivere della propria arte — a parte la biografia pura, ci sono degli aneddoti che il cinefilo appassionato troverà golosissimi, e anticipano, in qualche modo, certi personaggi o certe atmosfere che ritroverà nei suoi film.
Lynch racconta di quando, ragazzino, vide una vicina di casa, probabilmente affetta da turbe, nuda in mezzo alla strada — il corpo bianchissimo, sporco di sangue. Il cultore lynchiano non può non intravedere Dorothy, nuda e malridotta, nel giardino di casa Beaumont in Blue Velvet. E scopriamo che un Lynch poco più che adolescente lasciò di punto in bianco un concerto di Bob Dylan perché incredulo che un uomo “così piccolo” — “that short, that short!” — potesse sollevare tanto clamore. Chi ha visto Twin Peaks, saprà quale carica inquietante accompagni il nano onirico apparso in sogno all’agente Cooper…
Il titolo del film coglie quello stato di felicità assoluta che l’artista prova facendo arte. “The Art Life”, commenta Lynch, “è quel modo di passare la vita a bere caffè, fumare sigarette e dipingere. È lì che provi felicità infinita”.
Tuttavia il passaggio al cinema non ha rappresentato, per lui, un abbandono della pittura, quanto piuttosto una sua evoluzione. Il regista evoca con chiarezza il momento epifanico in cui avvenne.
“Una sera, lavorando nel mio studio, mi ritrovai a fissare un dipinto, e dal suo interno uscì fuori un vento… E il dipinto prese a muoversi. Io lo fissai, lo capii, e dissi fra me e me, ‘Oh guarda, un dipinto che si muove’”. Un dipinto che si muove… E cinema fu.