I puma in California; il palazzo del Porno di San Francisco; la chiesa di san John Coltrane; il Ganja yoga; i vicini di casa del giovane Bruce Springsteen a Freehold, New Jersey: sono alcuni dei luoghi, dei personaggi, delle storie che ci racconta Silvia Pareschi nel suo I jeans di Bruce Springsteen e altri sogni americani, appena uscito per Giunti. Pareschi, che vive fra San Francisco e il Lago Maggiore, è la traduttrice di Jonathan Franzen, e già per questo motivo noi devoti lettori italiani, non abbastanza in gamba per leggercelo in lingua originale, abbiamo maturato con lei un debito di riconoscenza inestinguibile (ho letto in una sua intervista che “micetta”, il nomignolo con cui viene chiamata, nella versione italiana del romanzo, la protagonista di Purity, è la traduzione di “pussycat”, e non ho potuto che applaudire mentalmente).
Un po’ reportage e un po’ raccolta di racconti, il libro ci porta sulle strade di un’America variegata e lontana dall’ufficialità. Eppure, sempre America, anzi, proprio l’America che abbiamo in mente noi che l’abbiamo sempre sognata “da lontano”, che l’abbiamo rincorsa nei romanzi e cantata nelle canzoni. Un po’ Lettera scarlatta e un po’ Woodstock-pace-amore-musica, insomma, un Grande Paese dove tutto è possibile, anche coltivare i culti più singolari, anche nutrire i sogni più ambiziosi.
E se per una ragazza italiana poco più che adolescente alla metà degli anni ’80 il sogno poteva essere parlare con il pizzaiolo e il sarto del Boss, del mitico autore di New York City Serenade o di quella Thunder road da cui Pareschi pesca la citazione che apre il suo libro, per una giovane inglese del Settecento, che aveva perso quattro figli neonati, il sogno era trovare un posto dove coltivare una religione che predicava la vita comunitaria, l’uguaglianza fra uomini e donne, l’etica del lavoro e soprattutto l’assoluta castità. Nacque così lo shakerismo, culto che conteneva in sé i germi della sua estinzione, perché se non fai sesso non ti riproduci e al massimo puoi cercare di adottare dei bambini, sperando che quando diventeranno adulti non decidano di abbandonare la tua stravagante comunità. Pareschi si cala in questo ed altri piccoli universi americani con piglio sicuro e senso dell’umorismo, ma senza presunzione, riportando in superficie ritratti vividi e onesti ad un tempo, mai viziati dall’ideologia.
Fra un Neil Young molto tranchant nel difendere la sua privacy e una “donna che cammina lontano”, monaca buddista giapponese che diffonde il verbo pacifista del Mahatma Ghandi con le sue marce per la pace attraverso l’America e il resto del mondo, c’è spazio però anche per alcuni excursus narrativi. Qui il registro cambia: la narrazione passa dalla prima alla terza persona e il tono diventa ora più intimo, come in Lavanderia a gettoni, ora quasi drammatico, come in Katrina, uno degli episodi più interessanti del libro, in cui si racconta di come una famiglia di New Orleans si ingegni per sopravvivere all’assalto del devastante uragano (diciamo che il male comune non crea automaticamente un senso di maggiore solidarietà fra le persone).
Ma i jeans di Springsteen, erano poi veramente di Springsteen? Trent’anni dopo, Pareschi (che oltre a Franzen ha tradotto anche altri grandi della narrativa contemporanea in lingua inglese come De Lillo, McCarthy e Zadie Smith), cerca di ricontattare la “sartoria di Ralph”, nel New Jersey, per saperne di più. Ma il proprietario che risponde al telefono, con fortissimo accento italoamericano, non sa, non ricorda, o non capisce. Non ha nemmeno un indirizzo e-mail dove inviare la foto che quella ragazza italiana aveva scattato al suo negozio. I sogni, insomma, a volte è meglio lasciarli lì dove stanno. Se sono veramente rose, prima o poi fioriranno. E comunque, il loro dovere lo fanno già: ci spingono a tornare on the road e a correre, perché dopotutto, o a dispetto di tutto, we are born to run.
Silvia Pareschi, I jeans di Bruce Springsteen e altri sogni americani, Giunti, 2016.
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