Dall’esterno si ha l’impressione che fare il direttore o il selezionatore del festival del cinema di Cannes sia tutto sommato tra i mestieri più facili del mondo. Quasi sempre negli ultimi anni, quando vengono svelati i palinsesti delle sezioni principali della kermesse francese, scopriamo con meraviglia che pressoché tutto ciò che avrebbe potuto esserci, in effetti, c’è, e molto spesso anche di più. La conferenza stampa che il direttore Thierry Frémaux ha tenuto il 14 aprile, a Parigi, per svelare i film che si contenderanno la Palma d’oro non è stata certamente un’eccezione, dato che tra il concorso principale e il “concorsino” Un certain regarde c’è davvero da strabuzzare gli occhi: ed ecco Almodovar con Julieta, Sean Penn con The Last Face, Jim Jarmusch con Paterson, Ken Loach con I, Daniel Blake, i fratelli Dardenne con La fille inconnue, e poi ancora il coreano Park Chan Wook, il filippino Brillante Mendoza, il rumeno Cristian Mungiu.
Ci sarà da divertirsi, insomma, ma tra tutti questi mostri sacri, cui si aggiungono fuori concorso big come Spielberg o Woody Allen, c’è un giovanissimo regista canadese il cui nome forse al grande pubblico potrà anche sostanzialmente dire poco, ma che in quanto a talento ha veramente poco da invidiare a tutti gli altri. Si chiama Xavier Dolan, ha 27 anni, dei suoi film (sei, con il prossimo, transitati dai concorsi dei maggiori festival di tutto il mondo) è sceneggiatore, regista, montatore, costumista e talvolta anche attore. La sua più recente opera si chiama Juste la fin du monde e ha un cast di star francesi come Gaspard Ulliel, Marion Cotillard, Léa Seydoux e Vincent Cassell. Ai nastri di partenza si presenta come uno dei grandi favoriti per la vittoria finale.
Chi è allora questo giovane autore che nel 2014 la vittoria l’ha sfiorata davvero con quello che – ad oggi – è il suo film più bello, Mommy, con cui si è aggiudicato “solo” il premio della giuria? indubbiamente un talento limpidissimo e cristallino ma anche un cineasta eccentrico, viscerale, che ama costruire dei personaggi dalle tinte forti ed esagerate, spesso portatori di conflitti irrisolti e di contrasti irrisolvibili, che tra loro si rispecchiano, si confrontano e poi si mescolano gli uni con gli altri fino a diventare in qualche modo paradigmatici.
Dolan cala questi personaggi in melodrammi fiammeggianti che sembrano un patchwork di rimandi a grandi cineasti che lo hanno preceduto: un po’ di Fassbinder, un po’ di Almodovar, un po’ Gus Van Sant, una spruzzata di Douglas Sirk. Eppure, il modo in cui il giovanissimo genio canadese ha “digerito” questi autori per poi riproporre un suo stile, riconoscibile e originale, ha qualcosa di sbalorditivo. È come se Dolan avesse la forza per ridefinire ciò che noi chiamiamo pop, per farlo esplodere con una libertà di espressione selvaggia e sincera al punto da potersi permettere di affrontare apertamente il kitsch senza paura alcuna.
I temi principali che percorrono il suo cinema sono essenzialmente due: i chiaroscuri perversi che “sezionano” il rapporto edipico tra madre e figlio e la sete “scomposta” e problematica di libertà che caratterizza le generazioni come lui cresciute a cavallo tra i Novanta e i Duemila, nell’epoca dell’esplosione di ogni forma residua di coordinata educativa, sullo sfondo del conflitto, eterno ed attuale, tra legge e desiderio. Così, dall’esordio di J’ai tué ma mère fino a Mommy, Dolan racconta questi conflitti e queste tensioni senza temere l’eccesso e la ridondanza, anzi avendo fatto dell’ipertrofia stilistico-emotiva un marchio di fabbrica.
Per far capire chi è Dolan a chi non lo conosce, potrebbe essere sufficiente una sequenza, forse quella più (giustamente) acclamata di Mommy e anche della sua intera filmografia. Siamo più o meno a metà del film, si è appena costituito un bizzarro nucleo familiare formato tre soggetti: il primo è Steve, il figlio, un disadattato che soffre di una grave forma di disturbo dell’attenzione e di un conseguente disturbo della personalità borderline; poi c’è Diane, la madre, donna di cinquant’anni, vitale e smarrita, persa tra frustrazioni, rimpianti e sensi di colpa, che con molta fatica gestisce se stessa, figuriamoci il suo problematico figlio. I due si amano in modo intenso ed esplosivo, si insultano, si picchiano, si cercano, si toccano, si abbracciano, alla disperata ricerca di un equilibrio ovviamente impossibile. Il terzo personaggio è Kyla, una vicina di casa emotivamente fragile, balbuziente, che si è da poco trasferita con la famiglia, che è stata probabilmente segnata da un lutto materno (qui Dolan con una reticenza quasi manzoniana si accontenta splendidamente di alludere). Kyla diventa il nostro modo di guardare e di capire i due personaggi e l’Altro che consente a madre e figlio di leggersi e di trovare una simmetria inaspettata (e, naturalmente, effimera). Come potete vedere, Dolan, che si sente “libero” di usare tutto ciò che è cinema, sceglie di incastrare la storia in un formato eccentrico: 1:1, in altre parole un quadrato (evitiamo di dire il formato di Instagram, per carità).
I personaggi vengono “stipati” dentro ad uno spazio angusto con due enormi bande nere ai lati. Cercano unità, Steve, Diane e Kyla, ma nel quadrato vengono costantemente separati, i corpi si mescolano e vanno in pezzi, non hanno lo spazio per convivere e per identificarsi. Quando, improvvisamente, per poco, tutto sembra illuminarsi di senso, i tre vengono raccontati in una sequenza che elenca semplicemente i luoghi e le situazioni in cui “sentono” per la prima volta il loro posto nel mondo, alternando queste scene ad una lunga inquadratura dei tre che in bicicletta (le due donne) e in skateboard (il ragazzo) girano per le strade della loro città.
Qualsiasi altro regista, se scegliesse di accompagnare la scena con Wonderwall degli Oasis, risulterebbe ridicolo. Dolan lo fa e forse il brano della band di Manchester non ha mai funzionato così bene. Ma il vero capolavoro di questa scena riguarda il formato. Steve si sente finalmente libero, per la prima volta. Vuole “mangiarsi” il mondo, a chi non è capitato? E allora, semplicemente, in un altro momento che avrebbe potuto essere grottesco, “allarga” il formato con le mani, restituendoci uno spazioso 16:9. Altri lo avrebbero, a fatica, “detto”. Dolan lo mostra, con un’esattezza emotiva che commuove e ci fa innamorare del suo modo prepotente di fare cinema, della naïveté con cui rischia la pacchianeria ribaltandola nel suo contrario e della nuova definizione di pop che, siamo sicuri, questo talento immenso saprà scolpire.
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