Per salire all’appartamento di Mario Fratti bisogna chiamare un ascensore di quelli di una volta, con il cancello a scorrimento e l’ascensorista che ti spinge il bottone del piano. “Vai al quindicesimo – mi dice sentendomi parlare italiano al telefono – da Mario. È l’unico italiano qui”. Il palazzo è uno di quegli austeri grattacieli antichi che il passare degli anni ha reso più morbidi. Mario mi aspetta alla porta.
Da dietro le sue spalle si affaccia la rossa capigliatura incolta di Emanuele Aldrovandi. È appena arrivato a New York perché lunedì, all’Istituto Italiano di Cultura, ci sarà un reading del suo Farfalle con cui ha vinto il Premio Mario Fratti che conclude il festival In Scena! 2016. Lunedì Mario gli consegnerà il riconoscimento per il suo lavoro, intanto Emanuele sembra sinceramente emozionato di trovarsi nell’appartamento newyorchese del commediografo italiano i cui testi sono stati tradotti e rappresentati in tutto il mondo. Improvvisamente più bambino dei suoi trent’anni, continua a guardarsi intorno e fare domande. Le pareti piene di libri, locandine e quadri, la finestra che affaccia davanti a quella dell’appartamento in cui visse Tennesse Williams, il pianoforte di Audrey Hepburn, i poster di Nine: ce n’è abbastanza per giornate di storie a base di teatro, illuminate dalle luci di Broadway.
Quel mondo che Emanuele sta iniziando ad esplorare è il mondo in cui Mario Fratti vive da sempre.
Mi dispiace un poco interrompere quell’intimità, ma sono qui per intervistarli, per farmi raccontare il teatro, con gli occhi di chi il premio l’ha vinto e di chi al premio ha dato il nome. Due generazioni di scrittura teatrale a confronto.
Perché Mario Fratti scrive teatro?
MF: “Perché voglio comunicare le mie idee sul mondo, voglio descrivere il mondo, io scrivo all’uomo per essere capito dall’uomo”.
Perché Emanuele Aldrovandi scrive teatro?
EA: “Io scrivo storie, la forma teatrale è quella più adatta a raccontare un certo tipo di dinamiche e di storie quindi per ora ho scritto molto teatro perché ho trovato che, per la materia che volevo raccontare, il teatro era la forma migliore. La considero una forma letteraria e certe storie possono essere raccontate solo in teatro”.
C’è un messaggio in quello che scrivi?
MF: “Sempre. Io comincio le mie commedie dalla conclusione e nella conclusione c’è sempre un messaggio”.
EA: “Più che un messaggio per me è una domanda. Magari una domanda cui noi riesco a dare una risposta. E quindidivido le varie possibili risposte nei vari personaggi che sono parte di me e che non sono ricomponibili in altro modo se non in modo drammatico. Quindi, sì, c’è un messaggio che è una domanda e da cui emerge anche la mia visione del mondo, nel fatto di aver posto quella domanda e averla posta in quel particolare modo”.
Quindi il teatro per te ha anche una funzione sociale e/o politica?
MF: “Per me sì. Per me è un’arma che io uso per illuminare, per comunicare e per descrivere il mio mondo”.
EA: “Anche per me ce l’ha. Però c’è un problema, per lo meno in Italia (io finora ho messo in scena quasi esclusivamente in Italia): il messaggio sociale del teatro è reso vano dal fatto che a teatro ci va solo il quattro per cento della popolazione italiana, quindi ogni messaggio sociale non può avere effetto sulla popolazione perché chi va a vedere lo spettacolo è già d’accordo, è già sensibilizzato. Non so come sia in America, ma in Italia fare teatro sociale è un’ipocrisia perché tu lo fai sapendo che non avrai nessun impatto sociale e che la gente che viene a vederti la pensa già come te. Quindi fai intrattenimento in un altro modo. Non hai un reale impatto. Una volta il teatro era la piazza della civiltà. In Italia il teatro non è più la piazza, è lo scantinato. Se tu dici qualcosa nello scantinato, la dici a chi è già entrato nello scantinato e quindi probabilmente la pensa già come quello che c’era scritto all’ingresso dello scantinato. Per questo bisogna reinventare il ruolo del teatro in Italia. Resta il fatto che il teatro in questo momento non è il mezzo migliore per parlare alla gente perché la gente non lo ascolta. Ha altri vantaggi: un potere immaginativo e di messa in discussione, ma bisogna tenere conto che agisce su una minoranza. Allargare il pubblico significa fare quello che il pubblico vuole e quindi si perde poi la forza del messaggio. E questo è un problema che in Italia c’è molto. Parlavo con un drammaturgo inglese e mi diceva che a Londra lui fa delle play sociali politiche e la gente va a vederle e poi ne discute. Non so se in America sia così, ma in Italia no”.
MF: “Interessante quello che ha detto Emanuele sul fatto che viene a teatro soltanto chi è interessato alle tue teorie. Verissimo”.
Chi è il tuo pubblico Mario?
MF: “Io faccio commedie off-Broadway e il mio pubblico sono anglosassoni, ebrei e afroamericani. Quasi tutti la pensano come me: sono dei liberali. Quel due o tre per cento di italiani che vengono sono poco interessati. Il mio pubblico sono persone di sinistra. Profondamente democratici”.
Più sandersiani o più clintoniani?
MF: “C’è una tendenza ad essere più sandersiani. Ma io, seppure sono d’accordo su quasi tutto con Sanders che ha delle ottime idee, penso che stia rovinando un po’ la campagna di Hillary. Inizio un po’ ad arrabbiarmi…”.
[Off the record parte una discussione politica dal sapore molto italiano]
E invece il tuo pubblico, Emanuele?
EA: “Il pubblico non mio, ma direi in generale il pubblico che in Italia va a vedere delle prove di autori contemporanei viventi, è intellettuale, acculturato. Personalmente io sono molto contento quando viene a teatro qualcuno che non c’è mai andato e si diverte, apprezza. Io cerco di scrivere cose che siano fruibili da chiunque. Se invece i miei testi piacciono solo a gente che va solo a teatro, vuol dire che non parla alla gente vera che vive nel mondo che non è il due per cento di gente che va sempre a teatro, come probabilmente siamo noi”.
Beh, Mario in effetti va tutti i giorni a teatro…
MF: “Io credo che il pubblico debba imparare qualcosa da noi e per questo dobbiamo comunicare con chiarezza assoluta, niente di oscuro. Questa è una qualità che noi abbiamo, abbiamo questo in comune… Emanuele ha scritto un testo bellissimo, molto poetico, ma molto chiaro. E sono contento che lo abbia vinto lui con questo testo”.
EA: “Sono onorato. Grazie. E d’accordo sulla chiarezza. Grazie”.
Mario, nei tuoi testi, anche se i temi sono impegnati, c’è spesso la battuta sagace, un aspetto leggero, comico. Da dove viene?
MF: “Bisogna tenere vivo l’interesse del pubblico. Il mio segreto è stato sempre di essere imprevedibile. Il pubblico sta lì e si chiede: dove sta andando Fratti? E non indovinano mai. E alla fine prendono un pugno in faccia. E quella è la mia gioia. La risata serve a tenerli lì, perché voglio che restino fino alla fine per ricevere il colpo finale”.
E nelle tue opere, Emanuele, c’è un elemento di commedia?
EA: “Sì, molto, ma non è voluto. L’ironia va moto di moda come mezzo di conoscenza e dopo un po’ rischia di diventare una cosa fine a se stessa e autoreferenziale. Nel mio caso riflette piuttosto un approccio che ho alle cose e al mondo, in questo specifico momento. Se un giorno avrò un altro approccio magari non avrò più ironia e allora non ce la metterò apposta per volercela mettere”.
Quando hai iniziato a scrivere per il teatro, Mario, qual era la principale difficoltà per un giovane autore che volesse vivere del suo lavoro?
MF: “Scrivere non è mai stata la difficoltà. Sono sempre stato un fiume in piena. Ma di teatro non si vive. In Italia si vincono premi. Soddisfazioni tante, ma non ci si vive”.
Allora come oggi? Non è cambiato niente?
MF: “Non è cambiato niente”.
E in Italia come in America?
MF: “In America ti può succedere di avere quello che qui chiamano a killing, che ti dà da vivere e poi da tutto il resto fai niente”.
Che nel tuo caso è stato Nine…
MF: “Esatto”.
E oggi in Italia quali sono per un giovane le difficoltà?
EA: “La difficoltà maggiore è farsi leggere. Io ora grazie ai premi che ho vinto riesco a farmi leggere e quindi poi le mie cose vengono messe in scena e finalmente negli ultimi anni sto riuscendo a vivere solo di quello, anche se tra mille difficoltà. Lo scoglio è farsi leggere. I teatri non leggono i testi. Li leggono solo se ti conoscono, sanno chi l’ha mandato. Non so se in America sia diverso ma in Italia funziona così”.
MF: “Sei coraggioso a decidere di fare solo il commediografo. Io ti consiglio di fare anche l’insegnante e il giornalista [ride]. Qui in America ci sono dei personaggi pericolosissimi che sono di solito dei commediografi falliti che lavorano per le produzioni e devono leggere e selezionare i copioni. Al grosso direttore viene filtrato solo un nome: un amico, un cugino, un amante. Perché la maggior parte non passa. Perché loro non vogliono appoggiare i commediografi”.
Adesso dovete farmi un favore. Mario Fratti puoi fare una domanda a Emanuele Aldrovandi? E Emanuele puoi fare una domanda a Mario? Potete pensarci.
MF: “Io ce l’ho già: pensi che diventerai più polemico nel tuo teatro? Vuoi diventare più polemico?”.
EA: “Voglio includere la polemica ma non voglio farlo per entrare in un filone. Non voglio essere come chi ha fatto della polemica un mestiere. Voglio fare polemica in maniera costruttiva e incisiva”.
Emanuele? Tocca a te.
[Ci pensa qualche secondo]
EA: “Come hai fatto a scrivere per più di settant’anni mantenendo viva la voglia di scrivere fino ad oggi e costruendo uno stile distintivo, senza cadere nella ripetizione?”.
MF: “Io sono un po’ arrogante. Penso di conoscere il mondo. E quindi lo illustro nei suoi diversi dettagli. Mi piace farlo e continuerò a farlo. Siate persistenti”.
Il Premio Mario Fratti viene attribuito annualmente all’autore di un’opera originale in lingua italiana o in dialetto, mai rappresentata. Il riconoscimento viene assegnato nell’ambito del Festival di teatro italiano In Scena! organizzato nel mese di giugno a New York, come contributo alla diffusione della drammaturgia contemporanea italiana negli Stati Uniti e con l’intento di offrire ad un autore italiano una vetrina prestigiosa a New York.